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Flatus Vocis

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Giuseppe Armani

FUORI COMMERCIO

In copertina: Modest Urgell Y Inglada, particolare di Cementerio, (olio su tela, 169 x 297 cm), collezione Fundación Gala-Salvador Dalí. Teatro Museo Dalí de Figueras, Spagna.

Genere: Poesia

978-88-95880-98-3 | pp. 104 | 12 × 20 cm | aprile 2012

Esaurito

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Descrizione

“Voce senza importanza, parole senza interesse, discorso senza consistenza, senza significazione, suono che si disperde nel vento”: l’attuale ricorso al sintagma “flatus vocis” ha una valenza squalificante, perlopiù negativa.
FLATUS – dal latino “flare”, soffiare – è il fiato, il soffio in quanto aria che durante il movimento di espirazione viene emessa dai polmoni attraverso il naso e la bocca per respirare e, per estensione, alito. Vale pure quale soffio dell’aria, vento. VOCIS (della voce), dal latino “Vox-Vocis” il cui accusativo “Vocem” vale “Voce” proviene dalla radice indoeuropea VAK che in sanscrito è VAC’-MI – o con raddoppiamento di radice VI-VAC’-MI – e che sta per “dico, chiamo” ma anche per “parola” e “discorso”.
Così i due termini accoppiati rinviano contemporaneamente alla doppia dimensione del Fiato (fisica: emissione del fiato per respirare; intenzionale: fiato emesso quale segno, quale intenzione di appello, chiamata) e alla duplice valenza della Voce (fisica: suono dell’aria che esce dalla laringe umana – e per estensione da quella animale o da uno strumento a fiato – e significante: parola, vocabolo).
Il titolo della silloge riprende il sintagma “FLATUS VOCIS” che per Roscellino di Compiègne (1050?-1120?), che diede origine alla disputa sugli universali negandone una qualche realtà, è la fisicità della parola, il suono cui si riducono generi e specie. In opposizione alla tradizione platonica e neoplatonica, per Roscellino generi e specie (gli universali) non esistono se non in forma di parole (Voces) o emissioni verbali (FLATUS VOCIS appunto) mentre la realtà o sostanza risiede solo nel particolare. Pietro Abelardo (1079-1142), come il suo maestro Roscellino, ritiene che gli universali (generi e specie) siano parole ma distingue “l’emissione della voce” (Vox), che è una cosa, dalla parola propriamente detta o parola significante (SERMO). Per Pietro Abelardo la parola significante è ciò che rimane una volta che la voce (CURSUS VOCIS) è tolta: la parola allora è significante (TENOR AERIS) e in quanto “sermo” introduce alla significazione che viene colta come un fascio di relazioni (STATUS) tra cose (soggetti e predicati nella proposizione) e non cose singole significate. Un modo di essere e non un’essenza.
Che ne è della Voce? Ridotto a un resto insignificante, il suono o assolve alla sua funzione necessaria e assoluta di destinazione della parola o non è che un’emissione insensata, il pericoloso farsi avanti del corpo. Di un corpo, del corpo di qualcuno, dell’unicità di un individuo. Il fatto è che a incoronare la parola come sovrano assoluto spariscono i parlanti.
Svincolata dalla gola di chi la emette, la parola devocalizzata è in fondo laringectomizzata: un suono spersonalizzato di una voce in generale.
Eppure solo la Voce non inganna.
Incrinata o intatta; rapida o adagiata; inflessa o non marcata; ininterrotta o attraversata da pause in un rapporto dialettico costante con un silenzio che la nutre, dove la parola si arresta al passaggio a livello del significato, la voce porta oltre. Verso un possessore, verso le sue intenzioni. E infine, verso il senso di un voler-dire che oltrepassa il detto.

Giuseppe Armani

Flatus Vocis