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Un sorriso mendico

13,30 

Giovanni Vanni

Genere: Narrativa

978-88-97995-29-6 | pp. 248 | 14 × 21 cm | maggio 2013

In copertina: Maschera di Valentina Rivelli, acrilico su tela, 2010 (50 x 50 cm), per gentile concessione dell’Autrice www.valentinarivelli.com

Esaurito

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Descrizione

Già dal titolo, si pone l’accento su un certo modo di sorridere, frequentemente riscontrabile in chi è solito chiedere in modo meschino o imbonitore.
Il romanzo è ambientato nell’epoca degli anni Cinquanta, quando ancora il mondo non era preda del tecnicismo, né tanto meno dell’elettronica. Quando gli uomini dialogavano meno con le macchine e più tra loro.
Una nazione è prostrata da una rivoluzione. Maurizio, il protagonista, ha questo modo di sorridere, dato dalla sua opaca personalità che lo porta a commettere atti poco concreti, spesso puerili, con la conseguenza di costringerlo a vicende spiacevoli che lui cerca inutilmente di risolvere con quel suo sorriso mendico. Una patologia degenerativa lo porta a perdere la ragione e, in quello stato, inizia a percorre strade ignote, vivendo fatti imprevedibili, spesso al di là della fantasia.

Prefazione a cura di Kreszenzia Daniela Gehrer

 

In Un sorriso mendico Giovanni Vanni conduce senza il timore di essere frainteso una narrazione fatta di salti e cesure schizofreniche. Sono le medesime schizofrenie narrative che fanno parte del processo di appropriazione o ri-appropriazione della coscienza da parte di ogni uomo: l’autocoscienza, disancorata da qualsiasi astrazione e gettata nelle premesse temporali e spaziali del mondo – di questo mondo – non si comporta come una improvvisa e lineare radura del sé. L’Io procede per balzi significativi e coni d’ombra, appare e dispare.
La consapevolezza del sé, in ultima analisi, non avanza su una strada ferrata priva di avvallamenti, scorciatoie, interruzioni, vicoli ciechi. È invece una progressione faticosa fatta di strappi incomprensibili nel suo tessuto narrativo, di fratture, spesso insanabili, nel corpo del mito, mito inteso qui come “racconto” della vicenda umana.
La finitudine degli strumenti della nostra conoscenza ci impedisce di cogliere con immediatezza la ragion sufficiente del Tutto che è soggetto alle regole necessarie della propria natura: l’umana comprensione brancola con il pudore della propria insufficienza nell’indagine di singole frazioni esistenziali, di brani isolati interdetti nella soluzione di continuità. Questo accade nelle storie dell’Uomo, di tutti gli uomini e forse ancora di più nella vicenda del protagonista di Un sorriso mendico, Maurizio.
Maurizio, e con lui la mano e il linguaggio dell’Autore, scardina i gangli stretti della successione narrativa e si fa strada nelle intercapedini che lo conducono a percorrere vie alternative, labirinti, salti logici e temporali, fino a raggiungere la chiarificazione del suo destino nell’abbraccio dei suoi figli, che sancisce solo in quel momento la fine della rivoluzione che lo ha costretto a peregrinare insieme alla sua famiglia in un primo momento e poi come solitario viandante da Salenta a Santa Candida, da Pianeta a Montegabbro. Non solo, è l’atto ultimo che dispone la piena riacquisizione della propria coscienza e della propria vita, fino a quel momento eterodiretta dalle congiunture storiche, dalla malattia e dal suo “sorriso mendico”.
Già, perché il sorriso mendico di Maurizio non è solo un atteggiamento cinesico, ma acquista una tale portata semantica e agente da potersi considerare come personaggio ulteriore che muove la trama del romanzo. Tanto da titolarlo.
Il sorriso del protagonista è una vera e propria arma di difesa e, in alcune circostanze – messo il protagonista spalle al muro dal suo senso di inadeguatezza – di attacco. Di quest’arma si serve, mendicando comprensione, ma da quest’arma spesso, senza piena consapevolezza, è servito quando appare sul volto come un castigo sociale, quasi una ruga involontaria che esprime la sottomissione di un uomo al suo destino, alle sue manchevolezze comunicative, ai suoi deficit comportamentali, all’incapacità di dirigere l’azione che lo può salvare.
E pur tuttavia per tramite di quello stesso inappropriato sorriso si perdona all’uomo la sua manifesta incolpevolezza, l’incolpevolezza di Maurizio, la sua nudità davanti alla storia. Posto dinnanzi a lui il lettore attento, l’umanista sarà costretto a sospendere il facile giudizio morale e anzi da lui sarà preteso lo sforzo di andare oltre la propria finitezza; gli sarà richiesto di indagare più che commiserare, capire cosa cela la maschera.
Questa tensione è richiesta a tutti i personaggi che prendono parte alle avventure rocambolesche di Maurizio. Un protagonista, tutti protagonisti di una vicenda umana, “troppo umana”. Nessuno – da Gemma, la moglie di Maurizio, ai figli Aurelio e Chiara, all’onorevole, l’amico di famiglia dalla condotta opaca, a Poldo e Cartasuga, a Mara, ad Amedeo e Tiziana – è protagonista subalterno. Tutti hanno la medesima pariteticità d’azione e significanza nell’economia del racconto. Ciascuno di loro è portatore di una ragion sufficiente.
Nel suo complesso intreccio di sequenze, pur nelle cesure nette della loro articolazione, Un sorriso mendico ci conferma in pieno quanto scritto da William Styron: «Il linguaggio, i personaggi e la narrazione sono interconnessi in maniera inseparabile, come la Trinità». Almeno fino al prossimo dis-velamento.

Un sorriso mendico